Il processo di scrittura: intervista a Silvia Vecchini
“La parte più difficile di tutto il processo è stata scriverla (ndr la poesia) e lavorarla, cioè per scrivere bisogna avere le idee molto chiare ed io molto spesso mi bloccavo perché dovevo pensare a cosa o a quale scena e momento volevo descrivere. Anche per fare una bozza c’è ne ho messo di tempo anche per fare un confronto sul taccuino ne avrò fatti mille, ma grazie a questi confronti, idee, ispirazioni, e soprattutto ricordi sono riuscita a fare una poesia e anche a strutturare meglio ciò che pensavo ed le emozioni che provavo. Il taccuino certe volete e come se fosse il tuo migliore amico perché grazie a lui riesci ad aprire la mente ed a sbloccare alcuni ricordi che poi un domani potrai usare o scrivere come una storia o poesia, devo dire che la poesia sembra un inferno ma se dopo uno prova a scriverla o a leggere le poesie di scrittori o poeti insomma non è così male, all’inizio nemmeno a me piaceva onestamente però se devo essere sincera dopo averla praticata mi piace, sembra un bel modo di esprimere certe cose o sentimenti tramite parole soavi e leggere.”
È Iris, 13 anni, e qui rispondeva a questa domanda:
Qual è stata la parte più difficile nel processo di scrittura di questo pezzo e come mai?
Dopo la consegna di ogni testo finito, il WW prevede che scrittrici e scrittori facciano metacognizione tramite alcune domande riguardanti le varie fasi della stesura. I maestri americani l’hanno definito process paper, e noi così lo proponiamo. A volte viene vissuto come una scocciatura, le risposte sono addirittura più brevi delle domande, come accade con qualunque questionario quando non se ne ha chiaro l’obiettivo. Iris mi ha sorpresa! È la prima volta che le vedo cogliere le opportunità offerte dal taccuino e dalla revisione.
Nei suoi versi rivive una giornata felice con un amico o un’amica (Come a molti coetanei, non le interessa la differenza e la poesia rispecchia il suo modo di sentire! Uno dei segnali che il processo di scrittura è stato autentico). Durante le consulenze, l’ho incoraggiata a cercare i pensieri, le espressioni dei visi, i gesti, la luce… Mi emoziona l’ultima strofa:
In quel momento
non pensavo a niente
ero felice ma non
lo sapevo con così
tanta certezza.
Versi che rivelano ancora necessità di lavoro, e meno male, perché la poesia è un genere che sarà riproposto nel triennio, proprio per apprezzare la nostra crescita, riscoprire come scrivevamo un anno fa e stupirci, decidendo magari di rimettere mano, per vedere come ce la caviamo adesso. Questo riguarda il mettere in atto le tecniche: sicuramente una parte fondamentale del processo che ci aiuta a trasferire i pensieri in parole; ma senza la prescrittura e la revisione sul taccuino, senza quel dialogo interiore che riempie la risposta di Iris, la forza di questa strofa non avrebbe trovato modo di emergere! Su quel dialogo amano fare domande i ragazzi e le ragazze che sperimentano il WRW, perché lo vivono.
L’intervista a distanza alla nostra Silvia Vecchini chiude idealmente il mese abbondante dedicato alla lettura e scrittura di poesia nelle mie classi 2 e 3 della secondaria di I grado. Tutto ha avuto inizio con la mostra Sulla punta delle cose, per la quale rimando all’articolo di Silvia Vecchini. È stata così generosa da offrirsi di proseguire il confronto avviato con noi tramite la mostra stessa, e questa è l’origine delle domande.
Che noi docenti lettura e scrittura dovremmo costantemente sperimentare per primi le strategie che proponiamo è un mantra che pervade i manuali di studio e le nostre formazioni. Se devo essere onesta, è una richiesta che ritorna con costante consapevolezza anche nelle richieste di alunni e alunne, ad esempio nelle autovalutazioni di metà anno. Vorrei riuscire a non dimenticare, nel troppo che affolla le giornate, che anche la metacognizione deve far parte di questo pieno coinvolgimento. Da quando scrivo per il nostro blog, questa necessità di riflessione sul mio personale processo attraversa le sessioni di progettazione, le tante riletture, revisioni, pause e dubbi…
Ho pensato che proverò anch’io a rispondere alle domande che nell’intervista che segue sono state rivolte a Silvia. Un ottimo esercizio che consiglio, perché solo se provengono dalla nostra esperienza diretta le strategie risulteranno efficaci.
Alice
Nel suo articolo, lei si riferisce alla mostra come ad un incontro fra i ragazzi e la poesia; “originale, non scontato e vicino alla vita”. Anche per lei è stato così?
Il mio incontro con la poesia letta e scritta in realtà è stato molto misterioso. È arrivato molto presto e inaspettato. Avevo pochi libri a casa, di poesia proprio nessuno. Ma a scuola tendevo l’orecchio riconoscendo qualcosa di molto attraente. Per la musicalità, per la densità, la brevità del dire e il silenzio tra parola e parola. Ma il vero, primo incontro con la poesia è stato il poter vivere a contatto con la natura. Credo che mi abbia aperto all’ascolto della voce della poesia e del suo dialogo continuo tra dentro e fuori, tra il sé e il mondo.
Jacopo
Che emozioni hai provato quando hai scritto la tua prima poesia? C’è un ricordo che si ricollega al momento in cui ha deciso di diventare una poetessa?
Lo ricordo bene e ne ho scritto qualcosa nel piccolo libro “C’è questo in me” (Topipittori). È un libro per me molto caro dove racconto la mia infanzia e l’inizio dell’adolescenza che ha coinciso con l’inizio della scrittura. Da bambina avevo scritto qualche poesia indirizzata dalle consegne della mia maestra. Ho sentito subito nella poesia “da grandi” che ci proponeva in classe vibrare una frequenza che mi toccava. Lo facevo con gusto, con grande partecipazione. Poi ho smesso. Ho ripreso a scrivere in versi quando stavo lasciando le scuole medie. Nel libro lo racconto così:
La prima poesia
La scrivo in quarta elementare. Parla di due pulcini che litigano per un seme. Poi ne scrivo un’altra che si intitola Le qualità dell’albero. È in rima, la imparo a memoria. Inizio a scrivere una storia lunga su un quaderno della banca. Scrivo una decina di capitoli. Disegno la copertina. La valle degli unicorni. Mi piace scrivere. Quando sono in macchina invento delle storie su quello che vedo.
Poi cresco un poco e non scrivo più.
Scopro però che esiste un posto dove si possono prendere libri in prestito. Faccio le medie quando entro per la prima volta in una biblioteca e prendo il mio primo libro. Non so che cosa prendere. Non conosco nulla ma non voglio libri per bambini. Vado davanti allo scaffale della poesia perché la poesia non mi mette in imbarazzo. A scuola ho letto Pascoli e Leopardi. Mi sembra che posso capirla e se non la capisco non importa. Si ammucchia dentro come grano in un fienile. Prendo un libro rivestito con un tessuto azzurro come il cielo. Ha così tante pagine che la carta è come quella della Bibbia di casa. Il titolo mi piace, Foglie d’erba. Decido che è il libro giusto.
Ricomincio a scrivere a quattordici anni. Scrivo cose che non sapevo di pensare. La mia prima poesia vera si chiama I miei pensieri. Nella poesia li divido in quelli di giorno e quelli di notte. Negli anni che sono passati sono successe tante cose. Non sono più quella che ero prima. Non so cosa sarò. Scrivere è come aprire il bocciolo del papavero per vedere se è bianco, rosa o rosso senza ucciderlo. Aprirlo tante volte, tante volte richiuderlo.
Quella prima poesia, quando la rileggo, mi fa un po’ paura. Fa paura perché io ho paura. Eppure quando scrivo non ho paura di niente. Scendo giù, sotto la superficie, spazzo e rassetto un grande castello nascosto agli occhi di tutti. Quando scrivo, una stella brilla sulla mia fronte e pietre preziose e diamanti escono dalla mia bocca che sta zitta. A volte sono pietre che tagliano. Eppure tutte mi fanno ricca in modo invisibile. Decido che devo continuare a scrivere e continuo (da C’è questo in me, Topipittori)
Non c’è però un momento in cui ho deciso di diventare poeta. Anzi. Ho sempre sentito che questa voce che veniva a visitarmi poteva benissimo non arrivare più! Quindi l’ho sempre trattata con molto rispetto, senza volermene appropriare. Diciamo che il massimo che posso fare è tenermi sveglia per quando arriva a dirmi qualcosa. L’unica cosa che ho deciso, se così si può dire, è continuare a scrivere e impegnarmi in lavori in cui la scrittura e la lettura erano importanti presenze quotidiane, dove mi si chiedeva una pratica continua attorno alle parole. Questo l’ho scelto mentre ancora studiavo Lettere all’Università.
Davide
Qual è il tuo luogo di scrittura ?
Ogni luogo in cui porto un taccuino! Ne ho sempre uno in borsa o in tasca perché le parole possano avere una casa per posarsi. Ma la scrittura in realtà per me inizia prima della parola scritta. La scrittura è anche tutto il tempo di ascolto che c’è prima. Ascolto del mondo attorno, delle persone, di me stessa, dell’immaginazione. Poi arriva ad esempio un solo verso, spesso il primo. Quel verso resta nella mia mente e nelle mie labbra per un po’ di tempo senza che io lo scriva. Oppure la voce di un personaggio. Anche questo tempo è scrittura, pur non lasciando tracce d’inchiostro.
Passato questo primo momento, quello della nascita delle prime parole che accolgo dovunque mi trovo, poi mi piace scrivere a casa. Sulla piccola scrivania vicino al camino oppure sul tavolo. Dalla mia cucina si vede il lago, sempre diverso, con tanta luce che cambia in continuazione. La mattina, quando non c’è nessuno in casa, è perfetto. Mi piace però stare in questo luogo dove durante il giorno accadono più cose, dove passano le persone, ci si ferma, arrivano sempre chiacchiere, parole, vita. Mi fanno compagnia anche quando la stanza è nel silenzio.
Dario
Che tecniche usi per creare poesie avvincenti ed affascinanti?
In realtà nessuna. Il miglior allenamento per me è tornare alle parole dei poeti che amo. La poesia insegna che ci sono infiniti modi di dire.
Però, quando non sto scrivendo, quando le parole non arrivano, mi tengo in esercizio con piccoli giochi come il caviardage o il collage. Trovo che sia una maniera molto piacevole e sorprendente di inciampare in parole che fanno apposta per te quando ancora non lo sai. Le parole degli altri, la casualità, l’imprevisto, risvegliano pensieri che giacciono sul fondo della mente, come addormentati. Mi piace che si destino a contatto con le parole ritagliate dalle riviste o che splendano negli spazi bianchi lasciati dal pennarello nero nel caviardage.
Enzo
Prima di trovare un punto di partenza quanto tempo impieghi nella fase di scrittura in media?
Uh, per le storie può essere tanto! Anche due anni. Ma sono di solito mesi molto intensi perché leggo, mi documento, raccolgo materiale, abbozzo i personaggi, provo dei dialoghi per sentirne la voce, mi immagino l’ambientazione ma soprattutto tengo la storia vicino al cuore. Ci torno su, più e più volte finché non sono sicura che tra le infinite storie che vedo attorno a me, sia proprio quella che io voglio raccontare. Quando sono pronta, allora vado abbastanza spedita a scrivere.
Elisa
C’è mai stato un periodo o una poesia in particolare in cui credevi che ciò che scrivevi non fosse abbastanza o fosse sbagliato? Se sì, come l’hai superato?
Capita di continuo di non essere soddisfatti della propria scrittura. Ci si può anche abbattere facilmente perché le parole non riescono ad arrivare dove noi vorremmo. Però in quei momenti non credo che sia sbagliato, semplicemente non funziona. È come cercare di accordare uno strumento senza riuscirci. Senti che qualcosa stona, non sei ancora vicino all’intonazione giusta. Quando succede così, da una parte è bene non mollare, dall’altra riconoscere quando è il momento di lasciar stare e andare a farsi un giro.
Mariangela
C’è un poeta in particolare che hai come punto di riferimento e che vai a rileggere ogni volta che hai bisogno di ispirazione?
Poete a me molto care sono Mariangela Gualtieri, Antonia Pozzi, Vivian Lamarque, Patrizia Valduga. Altre voci e alle quali mi piace tornare sono quelle di Mohja Kahf e Agi Mishol. Amo molto anche Sandro Penna e Giorgio Caproni. Dante e Leopardi li leggerei tutti i giorni.
Giulia
C’è qualcos’altro o un momento oltre alla poesia, che definisci una “tregua”, una pausa da tutto?
Sì, sicuramente. Stare nella natura, in compagnia degli alberi e degli animali. Questa è una vera tregua per l’anima, la mente, per il corpo. Ci si apre a un ascolto differente, si smette di pretendere, ci si accoglie. Per me, che ho sempre vissuto sulla riva del lago, la vicinanza all’elemento dell’acqua è di per sé il dono costante della possibilità di una tregua.
Giacomo
Perché hai scelto di mettere i tuoi taccuini accessibili a tutti?
Perché mi ha sempre tanto, tanto incuriosita vedere da vicino la scrittura degli altri, le correzioni, i ripensamenti. È una fase della scrittura importantissima. Per qualcuno si gioca subito, a ridosso della prima stesura, per altri può avvenire dopo un tempo più lungo. In ogni caso fa sentire come la scrittura sia un organismo vivo che cambia sotto gli occhi di chi scrive. Da una parola toccata, spostata, cambiata, da un suono che ne chiama un altro che non avevamo in mente, nasce qualcosa di nuovo. Mi sembra che la scrittura in quel momento sia capace di portarci più lontano, più in profondità di quanto avevamo previsto. E il poeta la segue. È un modo di conoscere molto avventuroso quello della poesia. Qualche traccia di questo muoversi avventuroso alla ricerca dell’esattezza resta sulla carta nelle prime bozze. Ricordo con emozione alcuni testi autografi di Leopardi. Le cancellature, le variazioni. Bellissimo!
Ma mettere i taccuini aperti nella mostra a Casa Piani era per me soprattutto l’occasione di condividere, come in un gioco, il piacere di scrivere e dire che la scrittura è un lavoro artigianale, pieno di errori, tentativi, appunti. Una pratica che lascia aperta la porta alla novità.
Docente di lettere presso la Scuola secondaria di I grado G. Fassi di Carpi (MO), è cofondatrice insieme a Jenny Poletti Riz ed Elisa Turrini di “Italian Writing Teachers”. Studiosa in continua ricerca, svolge attività di formatrice sul Writing and Reading Workshop.