Condividere per crescere
Confesso: lo sharing time è stato per me, all’inizio ma non solo, la “Cenerentola” del laboratorio.
Ho sperimentato il laboratorio di scrittura e lettura in una prima (secondaria di primo grado) lo scorso anno scolastico, anche se già l’anno precedente ne avevo introdotto qualche elemento nelle mie classi: penso sia esperienza abbastanza comune cominciare applicando in modo piuttosto rigido le indicazioni, e la collocazione standard del momento della condivisione in fondo alle sessioni di laboratorio, dopo minilesson e scrittura autonoma o lettura (individuale o collettiva), non mi ha aiutato a prendermene cura con l’attenzione che merita. Sono infatti tanti gli elementi che rischiano di eroderne il tempo: una minilesson che si dilunga troppo (e sappiamo bene quanto per un insegnante sia difficile liberarsi dell’abitudine di parlare parlare parlare…), o che non è ben focalizzata su un solo teaching point; un’attività di coinvolgimento attivo che sfugge un po’ di mano; la scrittura o lettura autonoma e il suo silenzio quasi irreale che si prolungano fino all’imprevisto suono della campanella… Mi è capitato così (troppo) spesso che il momento della condivisione semplicemente saltasse.
Anche perché, devo ammetterlo, imbrigliata forse ancora troppo in una concezione didattica “prof-centrica” dura a morire, ero io in fondo ad attribuire poca importanza al momento dello sharing, quasi fosse un accessorio facoltativo, una glassatura su una torta che tutto sommato poteva farne benissimo a meno.
Niente di più sbagliato.
Ma che cosa accade nel momento della condivisione? Un ragazzo che lo desidera, sedendosi su una sedia speciale, appositamente decorata, condivide con l’insegnante e il resto della classe un elemento della sessione di laboratorio appena conclusa che sente il bisogno di mettere in comune: un passo di quanto ha scritto che gli sembra particolarmente ben riuscito, o su cui al contrario ha bisogno di un consiglio; qualcosa che sente di aver davvero imparato; un’annotazione sul taccuino; un passo del libro che sta leggendo che lo ha colpito, o che non ha ben capito, o che lo ha messo a disagio, o che gli ha smosso qualcosa dentro; una strategia di scrittura o di lettura che pensa di aver saputo applicare con successo. Non c’è un copione già scritto e, a mano a mano che la pratica della condivisione si consolida e la comunità di lettori e scrittori rafforza i propri legami, i ragazzi trovano con sempre maggiore urgenza spunti di condivisione anche inediti e sempre più centrati e personali. I compagni e l’insegnante consigliano, si congratulano, chiedono chiarimenti, danno suggerimenti, abbracciano, metaforicamente e non.
Il punto è, ed è questo che si faceva sfuggire la mia miopia di insegnante, che i ragazzi hanno bisogno di condividere. Non era forse vero che spontaneamente, ancor prima che lo sharing time avesse un nome, uno spazio apposito e una sua codificata dignità, i ragazzi si proponevano con insistenza e grande slancio per parlare di sé, del proprio vissuto, sollecitati o meno? Non è forse sempre stato un momento caldo e sorridente, quello in cui in modo del tutto improvvisato ci si scambiava le impressioni su qualcosa, dall’uscita al film della sera prima, dalle vacanze alla bravata di qualcuno? Non si è forse sempre percepita, dopo intensi momenti di condivisione, la sensazione di essere cresciuti tutti almeno un po’? È proprio così, e penso che qualunque insegnante ne abbia esperienza diretta: ma in passato questi momenti restavano isolati, spettinati, e se si moltiplicavano… alzi la mano il prof che non viene colto dal panico pensando alle “cose da fare”! Da questo pensiero inquietante al derubricare una simile pratica come “perdita di tempo” il passo è breve. Ed è probabilmente questo retaggio che mi ha fatto essere inizialmente tanto superficiale nel considerare il momento della condivisione.
Non che ora come ora un simile spauracchio si sia del tutto smaterializzato, ma la struttura meticolosa eppure flessibile del laboratorio (credo risieda proprio in questa qualità tutta la magia del metodo del WRW) ci consente di collocare la condivisione in un orizzonte di senso che davvero le dà dignità.
Torniamo ai ragazzi, perché sono stati proprio loro a farmi riscuotere, quando nei questionari metacognitivi di fine quadrimestre si sono lamentati per la rarità dei momenti di sharing, che invece avrebbero dovuto coronare ogni sessione di laboratorio: questo ha messo in moto la mia pratica riflessiva, che come sempre non può che partire da me, dal mio essere insegnante, per provare poi a cambiare prospettiva.
Ho capito che per i ragazzi il momento della condivisione, dicevo, non è un optional, e neppure semplicemente un’occasione per far mostra di sé, come si potrebbe pensare e come all’inizio può accadere: attraverso lo sharing time, infatti, ogni alunno può prima di tutto “sentirsi visto” in un gruppo di tante persone, e sappiamo bene quanto questo sia vitale per un adolescente; inoltre può mettersi alla prova, superando magari l’imbarazzo, gettando – come si dice – “il cuore oltre l’ostacolo” e, nel ricevere feedback, può saggiare la propria competenza, scoprire come migliorare, sentirsi accolto e sostenuto. Condividere qualcosa con la classe è poi un esercizio di responsabilità, insegna a poco a poco a riflettere sul proprio processo di scrittura o lettura, a scegliere con cura concetti e parole e, in ultima analisi, a compiere operazioni metacognitive sempre più raffinate.
Anche chi non è seduto sulla “sedia della condivisione”, e non mi sto riferendo solo agli alunni, ha molto da imparare: ad essere accogliente, prima di tutto, a dare feedback sempre più pertinenti, consolidando così i propri apprendimenti, a conoscere meglio gli altri, a relativizzare i propri vissuti e i propri problemi.
Il momento della condivisione, insomma, con la sua ritualità e i suoi contenuti a volte toccanti, di profonda commozione, a volte divertenti e complici, che attingono all’esperienza e al lessico comuni e nello stesso tempo consentono di mettere a nudo la propria individualità senza sentirsi soli, contribuisce più di ogni altra pratica del laboratorio a creare e rinsaldare la comunità di lettori e scrittori: una comunità di pratiche ed ermeneutica, terreno fertile in cui può germogliare l’apprendimento davvero.
Una volta interiorizzato quanto prezioso sia, il momento dello sharing sarà pressoché impossibile da dimenticare, anzi diventerà talmente parte integrante del flusso di lavoro del laboratorio di lettura e scrittura che troverà di volta in volta un senso e una collocazione, non necessariamente sempre come ultimo step della sessione. Se infatti la chiusura delle sessioni con la condivisione è il coronamento perfetto del lavoro svolto, non è impossibile, una volta consolidata la pratica e irrobustita la comunità di lettori e scrittori, decidere per esempio di dedicare la condivisione specificamente al taccuino, magari come momento iniziale di una sessione, o di una settimana; oppure si può scegliere di condividere subito dopo il momento active di una minilesson, o dopo un lampo di scrittura e non angustiarsi troppo se non avanza tempo per il classico share time finale. Non è inoltre indispensabile che la condivisione avvenga sempre “in plenaria”: a seconda degli obiettivi che ci prefiggiamo, della consistenza della comunità, del momento e dell’argomento specifico, è assolutamente possibile chiedere che si condivida a coppie, o in piccoli gruppi. L’importante è che la scelta sia agita con consapevolezza e obiettivi chiari.
Naturalmente il ruolo e l’atteggiamento dell’insegnante fanno la differenza durante qualsiasi momento di condivisione: è fondamentale che il docente apra il proprio animo all’ascolto, favorisca i primi scambi (per esempio proponendo per la condivisione un brano particolarmente ben riuscito incontrato durante le consulenze di scrittura), faccia percepire ai propri alunni che qualunque cosa è “degna di essere detta”, come ci insegna Chambers, offrendo e pretendendo rispetto. In questo modo modellerà l’atteggiamento degli altri membri del gruppo e contribuirà a creare un clima caldo e positivo. È importante che l’insegnante tenga sotto controllo la partecipazione allo sharing time, in modo che prima o poi tutti i membri della comunità condividano qualcosa: va da sé che non bisogna forzare nessuno, e sta all’abilità del docente suggerire spunti semplici per “rompere il ghiaccio”. È inoltre una prassi consigliabile ed efficace, oltre che magnifica, quella della condivisione da parte dell’insegnante stesso: mostrarsi umano, reale, magari anche fragile è ciò che più avvicina un docente ai suoi ragazzi, lo rende credibile e quindi degno di fiducia.
Concludo con un cenno soltanto ad un altro piano in cui la pratica della condivisione dà prova di tutti i benefici che porta con sé, ossia a quello professionale. Lo scambio costante fra docenti di materiali, certo, ma soprattutto di impressioni, riflessioni, dubbi e successi non solo fa lievitare una vera comunità professionale in cui le risorse crescono esponenzialmente, ma rinsalda il singolo insegnante nella convinzione che sempre lo accompagna e lo sorregge: il nostro è il mestiere più bello del mondo.
BIBLIOGRAFIA
J. Poletti Riz, Scrittori si diventa. Metodi e percorsi operativi per un laboratorio di scrittura in classe, Trento 2017
A. Chambers, Il lettore infinito. Educare alla lettura tra ragioni ed emozioni, Modena 2015
Vive e insegna (alla secondaria di I grado) in un paesino della campagna fuori Milano; ama smisuratamente il proprio mestiere, il buon cibo in compagnia e i preadolescenti, arruffati pellegrini dell’età dell’indefinitezza e della ricerca. Forse perché si vive lei stessa sempre in cammino: a volte arranca – soprattutto da che un preadolescente ce l’ha in casa -, altre si gode il viaggio.
Grazie, Ilaria per l’articolo chiaro e prezioso. Grazie anche a Jenny e Silvia per averlo segnalato in “Educare alla lettura”. Dell’articolo ho apprezzato tantissimo il fatto di riconoscermi nella spontanea resistenza al cambio radicale di paradigma didattico, perché condividere questo sentire aiuta a non sentirsi soli sulla strada del cambiamento. Mi ha entusiasmato poi il riconoscere che il WRW dà l’occasione di inserire in un orizzonte di senso quelle pratiche (la condivisione nello specifico) che ciascun docente ha sperimentato come buone, senza riuscire a darne il valore e la dignità che meritano. La magia del WRW per me, al punto in cui mi trovo, sta nel rendere comprensibile e sostenibile la complessità di educare alla lettura e scrittura, senza tradirla o banalizzarla. Imparare a gestire la complessità esalta la gioia di insegnare e imparare insieme.