Dal taccuino al testo: un esempio nel percorso autobiografico
Nel suo libro Scrittori si diventa Jenny Poletti Riz definisce il taccuino come: “uno spazio per sperimentare, riflettere, creare […] che mantenga sempre un legame importante ed esplicito con la scrittura. Annotiamo ora per scrivere in futuro” (Jenny Poletti Riz, Scrittori si diventa. Metodi e percorsi operativi per un laboratorio di scrittura in classe), Erickson 2017, p. 91). Il taccuino è un luogo fisico, dunque, ma anche una raccolta in divenire, uno spazio di prova, di costruzione e distruzione, un luogo immaginario. In questo articolo vorrei provare a dimostrare questo: il taccuino è un utile strumento alla scrittura, forse non il più necessario, certamente il più duttile e personale. Una premessa: io ho sempre avuto un taccuino. Non lo chiamavo taccuino, ma scrivevo, disegnavo, annotavo, attaccavo biglietti. Era il mio modo per fermare quello che vedevo intorno a me. Questa forse è una delle ragioni per cui con questo strumento mi sento a casa. Lo uso ancora adesso.
Il taccuino strumento di scrittura
Il taccuino è uno strumento comune a tanti artisti; non è questa la sede per citare tutti i taccuini famosi, mi ha colpito però il racconto della genesi di quel capolavoro che è Anime Salve di De Andrè: “Faber tirò fuori uno dei suoi famosi quaderni e le cento righe di appunti quasi casuali, raccolti in anni di letture di libri e quotidiani, in tre giorni diventarono la descrizione lucida e appassionata del silenzioso, doloroso e patetico colpo di Stato avvenuto intorno a noi senza che ci accorgessimo di nulla, della vittoria silenziosa e definitiva della stupidità e della mancanza di morale sopra ogni altra cosa. Della sconfitta della ragione e della speranza” (Wikipedia, voce su Anime Salve).
Qualcosa di analogo mi ha scritto Marco: “Il taccuino è il posto dove scrivo quello che mi sta intorno. Se un pensiero mi passa per la testa lo metto lì, a volte disegno o annoto frasi che mi piacciono, da libri, poesie e canzoni. Il taccuino è un posto tutto mio. È utile perché se non ho idee, lo sfoglio e qualcosa ci trovo“.
Ecco allora entriamo un po’ più nel dettaglio di questo “qualcosa ci trovo“.
Il taccuino è uno strumento possibile, è uno strumento difficile, per questo è importante spiegare ai ragazzi cos’è, a cosa serve, come si usa e costruire di volta in volta la routine. Per alcuni dei miei studenti esso diventa uno strumento quotidiano, come scrive Arianna:
“Il taccuino è un po’ come i miei cassetti:
C’è disordine
Ci sono vestiti scelti dai miei genitori (i lavori che ci fa fare la prof)
Ci sono vestiti scelti da me pochi! (le mie annotazioni)
Ma è nel mio armadio che trovo i vestiti per andare in giro”.
(Arianna, riflessioni sul taccuino)
Per altri non è ancora chiaro a che serva ed è necessario il mio costante stimolo, attraverso le annotazioni guidate, ma tutti lo sentono come “compagno di viaggio”:
“Io non ho ancora capito a cosa serva il taccuino, però mi ci sono affezionato” (Andrea).
Certamente l’obiettivo più grande è che diventino autonomi nell’usarlo, annotando liberamente ciò che succede loro e li colpisce, che sviluppino uno sguardo diverso verso ciò che li circonda. Più realisticamente ciò avviene solo per alcuni, altri restano legati alle mie annotazioni e hanno costantemente bisogno di stimoli: ho provato ad assegnare annotazioni libere settimanali, ma i risultati non sono stati molto confortanti. Per cui continuo a proporre io annotazioni, quick write e attivatori grafici, insieme alle annotazioni libere, certamente. Ritiro il taccuino almeno una volta a quadrimestre, non correggo, leggo tutto e sottolineo le annotazioni più interessanti, commento le annotazioni libere. Incoraggio, stimolo, suggerisco: alla fine la valutazione è rispetto alla precisione, puntualità, profondità e originalità delle annotazioni.
Un percorso a ritroso: dal testo al taccuino
Questo è il testo che Margherita ha composto nel percorso sull’autobiografia, svolto in seconda media tra ottobre e novembre:
“Le mie meraviglie
A volte la felicità sta nelle piccole cose.
Io, la mamma, mio fratello Giulio e i miei nonni: alcune delle persone che amo di più al mondo, tutte rinchiuse in una barca che solca il mare e le sue onde, piccole onde che fanno ondeggiare il battello. La felicità. Siamo davanti al molo, cade a pezzi, con le sue travi marroni: eccoci qui, alle 10 meno 5. L’imbarco è previsto per le 11. A quell’ora ci si para davanti una piccola nave, che in realtà si può chiamare più comunemente battello, come dice la locandina: ha due piani, puntellati di sedie marrone chiaro e una sottocoperta.
Dopo un’ora giriamo intorno alla piattaforma, con i capelli che svolazzano al vento: si staglia, maestosa ed enorme, sopra le nostre teste. È proprio bella, rossa. Con le scialuppe ai lati. Nel frattempo si sente una voce registrata, che ci descrive il monumento. L’ascolto solo una volta, poi le mie labbra si contraggono, stringo i pugni e distolgo lo sguardo. Finita la descrizione ricomincia, sempre la stessa voce, sempre la stessa solfa. Italiano, inglese… Io mi concentro, piuttosto, sul suono forte e imponente che la piattaforma sembra urlare all’imbarcazione. La costa non si vede più. Ovunque io mi giri vedo solo acqua, salata e fredda probabilmente. Potrebbe nascondere coralli e un nuovo mondo che io voglio scoprire. Torno indietro, ho un sorriso aperto sul volto, convinta di aver vista l’ottava meraviglia del mondo.
Alcune piattaforme sono sul mare navigano e si spostano, vagano per orizzonti infiniti, assomigliano a isole. In un’isola vera io ci sono stata, un’isola che è stata anche un porto, un approdo di emozioni: l’Inghilterra. Lì potresti trovarci, nello stesso posto e nello stesso momento, gente vestita come se fossimo a novembre e altra che sembra essere al mare. Il clima è irritante come un bimbo che vuole la pappa. Londra è molto frenetica e sempre affollata, con più gambe che piccioni e con più teste che palloncini. In questo caos organizzato avevo un posto tranquillo dove andare: a casa della nostra amica di famiglia Marinella”.
Il testo prosegue con la descrizione di Londra, Oxford, Stonehenge e le avventure vissute; sul finale invece Margherita deve ancora lavorare:
“La felicità non è scontata. A volte bisogna aiutarla e accompagnarla, ma dopo queste avventure so con certezza che ogni attimo può essere felice”.
Come siamo arrivati qui? A cosa ci è servito il taccuino?
Il taccuino è il luogo della prescrittura: dove riflettere sull’argomento attraverso stimoli dell’insegnante, dove cercare ciò di cui si vuole scrivere, dove mettere in pratica le minilesson. Al periodo di immersione nel genere autobiografico che ci ha permesso di ricavarne le caratteristiche generali, riassunte in uno schema in classe e organizzate dai ragazzi in una check list, è seguita la parte che io chiamo rem tene. Si tratta di spingere i ragazzi, attraverso varie tecniche, ad entrare nel genere, a cercare gli argomenti e a scandagliare i ricordi.
Ho proposto i seguenti passaggi:
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attivatori grafico: i luoghi della mia estate. Ma potrebbe essere i luoghi che ho ne cuore/ vaso di Pandora (per analizzare le paure, i proprio limiti e le cose brutte e le nostre speranze)/ cose che mi fanno felice;
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riscrittura della poesia “Io sono” della Szymborska: riscrivere significa conosce la poesia, entrare all’interno del testo, poi farlo proprio e riscriverlo rispettando struttura e analisi. Secondo momento è stato la scrittura a ricalco della poesia “Vengo da” (il ricalco è stato fatto a partire dal mio “vengo da”, un insieme di versi con la ripresa anaforica);
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rielaborazione partendo dall’illustrato: La prima volta che sono nata di Vincent Cuvallier. Il libro contiene un elenco di prime volte, la particolarità è che l’autore utilizza uno stile ironico, che i ragazzi hanno dovuto riprodurre.
Per scrivere un buon racconto di memorie è necessario riportare alla memoria i ricordi; molto utili quindi i lavori di elencazione e le liste per stilare argomenti degni di nota:
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le mie madleine: un esempio di liste su momenti importanti della propria vita che ritornano a partire da suoni, odori, sapori come nel celebre racconto di Proust;
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i miei piccoli momenti di felicità (dopo la lettura del mentor text tratto dal libro Momenti di trascurabile felicità di Francesco Piccolo);
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ricordi succosi: partendo da una lista di domande chiave come:
Quali sono le mie prime memorie? Quanto riesco ad andare indietro?
Quali cose sono importanti per me?
Quali incontri e relazioni mi hanno aiutato a scoprire chi sono, cosa mi piace e cosa mi interessa?
C’è qualcosa che ho visto che non potrò mai scordare?
C’è qualcosa che è successo che mostra come siamo io e la mia famiglia?
C’è stato un momento in cui ho sentito il mio cuore andare in pezzi?
C’è un luogo o un momento in cui sono stato perfettamente felice?
C’è un luogo o un momento in cui ho riso a crepapelle?
È successo qualcosa che mi ha fatto cambiare idea su qualcosa o qualcuno?
C’è qualcosa che è successo che mostra che cosa siamo io e i miei amici?
C’è un momento che mostra come è il tuo rapporto con i tuoi famigliari?
C’è qualcosa che mi è successo che mi ha cambiato per sempre?
Mi è successo qualcosa a scuola che io ricorderò per sempre?
C’è un’esperienza, sintetizzabile in un’immagine, che ho vissuto che può mostrare meglio come sono? (Prova a pensare: compleanni, feste, vestiti di carnevali, colazioni in famiglia, scarpe, la maglietta preferita, il programma tv preferito)
Il taccuino serve, dunque, a riflettere, a tornare indietro e meditare su ciò che ho intenzione di scrivere e su come scriverlo, a cercare l’argomento su cui raccontare, a individuare le caratteristiche chiave di un genere, magari partendo da un cattivo esempio creato ad hoc dal docente, come in questo caso:
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Il taccuino è anche il luogo dove si riflette autonomamente su una tecnica spiegata in minilesson, come ha fatto Luciano che ha messo subito in pratica la tecnica del semino e dell’anguria:
“Salgo in macchina, siamo solo io e il mio papà, mettiamo il CD dei Guns and roses, parte Don’t cry. Iniziamo a picchiettare il ritmo della canzone: lui sul volante, io sulla portiera. Poi parte il ritornello: “Don’t you cry tonight, I still love you baby….” Insieme iniziamo a canticchiarlo, lui sorride, io di più. Vorrei che questi momenti durassero all’infinito: è incredibile come una piccola canzone possa far trascorrere momenti di incredibile felicità”.
Pronti, via!
Ora abbiamo raccolto molto materiale, che si fa? Dedico la lezione prima dell’inizio delle bozze all’analisi del lavoro fatto sul taccuino: invito i ragazzi a rileggere e osservare tutto il lavoro svolto, per cercare idee, per pianificare da dove partire, per sottolineare e commentare passaggi che li colpiscono particolarmente. È un’operazione molto utile, uno sguardo d’insieme ai semi che hanno messo sulle pagine, punti di partenza per costruire un testo ricco, coerente, coeso e nel quale risuoni la loro voce. Qualsiasi narrazione comincia da un’idea, semi da cui l’albero delle storie potrà germogliare e di cui il taccuino è un po’ la dispensa. Non tutte le idee diventeranno storie, molte resteranno lì, testimonianza del tempo dedicato a sviluppare il potere di intuire le cose nascoste alla vista (Henry James). Una volta scelto il seme o i semi da far germogliare è il momento di pianificare il testo, decidere la struttura, il ritmo lo stile e poi iniziare a scrivere, a pensare su carta, non sul taccuino, ma sulla nostra bozza.
La domanda a questo punto è: si può fare un laboratorio di scrittura senza taccuino? Si tratta di uno strumento necessario? La risposta è nel mezzo, la stessa Atwell gli preferisce un quaderno strutturato, tuttavia io credo che possa diventare una risorsa preziosa e importante, se sviluppata nel modo giusto. Ciò che è fondamentale, nel laboratorio di scrittura, è avere chiaro da dove si parte, verso dove si vuole andare e con quale percorso; in virtù di ciò si sceglieranno i mentor text, si progetteranno le minilesson, si struttureranno gli attivatori. Senza una visione d’insieme il taccuino si riduce a tanti begli attivatori slegati, destinati a languire senza dare frutto; se invece diventa vero strumento di scrittura, diviene luogo privilegiato della ricerca, dello sguardo sul mondo e dell’esercizio del pensiero complesso. L’amico da portare sempre con sé.
A tre anni dichiarai al mondo di voler fare l’insegnante e da allora non ho mai smesso. Vivo a Como e imparo ogni giorno dai miei studenti a fare il mio mestiere. (son fortunata, lo so).
Che bel lavoro! Grazie per la condivisione!